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La Divina Commedia "letta" in Sardegna

CAGLIARI, 16 marzo 2015 - È stata più di una semplice Lectura dantis quella tenuta da Rossano De Laurentiis, dottorando all’Università di Siena con un progetto di ricerca sulla storia della critica dantesca tra Otto e Novecento, venerdì 13 marzo 2015 nell’aula magna della Facoltà; ha introdotto l’incontro Matteo Vinti,

docente di storia della teologia alla PFTS. Il titolo, "Dante e la Sardegna: nel 750esimo anniversario della nascita", suggeriva un approccio ampio, e lo svolgimento, intervallato dalla lettura di brani scelti della Commedia, ha mostrato i contorni di una rassegna che ha abbracciato differenti ambiti, non solo di pura filologia. Che vi sia dell’altro, nella vicenda del rapporto tra Dante e la Sardegna, e che sia da riferire alla ricezione (o anche ‘tradizione’) di Dante, più che a Dante stesso, e a una possibile questione identitaria, è un aspetto che lo stesso relatore tiene a sottolineare in questa sua intervista.

Ma Dante è mai stato in Sardegna?

“Penso proprio di no. Per quanto certa critica si sia arrovellata su questo tema, vi sono accanto alla mancanza di documenti, alcuni elementi ‘stilistici’ che porterebbero a escluderlo. Uno di questi è per es. l’assenza del nuraghe o di un’immagine che lo rappresenti nella Commedia. È assai difficile che un elemento architettonico simile non restasse impresso nella memoria di Dante, per come abbiamo imparato ad apprezzarla nelle similitudini di paesaggi.”

Ma allora che tipo di conoscenza aveva dell’isola?

“Il suo principale tramite con la Sardegna fu molto probabilmente il compagno di lotta guelfa negli anni giovanili, il giudice in Gallura, Ugolino Visconti, detto Nin gentil, che Dante incontra nella valletta dei principi del Purgatorio: il nobile pisano che dopo la sconfitta coi ghibellini fu costretto a finire i suoi giorni in Sardegna appena trentenne: la fine di un esilio, che Dante forse presentiva anche per se stesso. Nino Visconti era nipote del conte Ugolino, esempi di quel patriziato pisano che Carducci definì di ‘cittadini a Pisa e re in Sardegna’; si trovò più volte a Firenze, e avrà raccontato a Dante dell’isola e del suo andamento amministrativo: tra sfruttamento delle risorse minerarie e corruzione dei vicari giudicali.”

A chi si riferisce?

“Ai personaggi dei barattieri calati nella pece nera della quinta bolgia dell’ottavo cerchio, quello dei fraudolenti, che rendono il canto XXII a 'tinte sarde'. La descrizione è demandata a Ciampòlo di Navarra che, interpellato da Virgilio, descrive due suoi compagni di dannazione: frate Gomita di Gallura, luogotenente di Nino Visconti; e Michele Zanche di Logudoro. Dante per questo episodio ricorre a una spia lessicale come 'donno', termine tecnico per indicare la funzione di giudice. Dagli autori classici, letti in latino, invece trasse le annotazioni di clima e costumi: la malaria (di Sardigna i mali, Inf. XXIX) e la Barbagia dissoluta, del resto ripresa per connotare le sfacciate donne fiorentine (Purg. XXIII).”

Ecco, infatti, si è detto: lei in questa conferenza non ha aggiunto elementi nuovi a un dibattito già ampiamente trattato. Ma…?

“Ma le questioni dantesche possono non esaurirsi nella ‘restituzione del testo’, come dicono i filologi. In senso lato intendo che oltre alla filologia e alla storia, si possono individuare altri elementi utili a sviluppare ulteriori discorsi e ipotesi ricostruttive.”

Potrebbe farci capire meglio?

“Se io penso al tema ‘Dante e la Sardegna’, la scarsità di elementi testuali e storici non solo non mi ha scoraggiato nell’allestire la conferenza, ma al contrario si è rivelata stimolante su altri campi. Io sono di origine abruzzese: dopo questa esperienza potrei pensare a una conferenza su ‘Dante e l’Abruzzo’ e, su quel tema, dovrei parlare della figura di Celestino V, un personaggio chiave nella storia del papato. Ma non troverei la stessa quantità o ricchezza di quello che ho trovato in questo percorso sardo. Non so se potrei costruire un quadro così completo e variegato, e per tanti versi coerente, come quello che è venuto fuori dagli iniziali elementi, ‘apparentemente deboli’.”

Di che tipo di “quadro” sta parlando?

“Innanzitutto la lingua. Non avrei messo lo stesso entusiasmo se non fosse stato il “sardo”, lingua negletta da Dante nel De vulgari eloquentia: capace solo di scimmiottare il latino. Mi è sembrato che questa peculiarità della lingua sarda, da ‘fratello povero’, meritasse di essere riscattata (e forse già lo pensò Dante); nel sentirla come una «vasta regione che sempre concede novità di terre agli occhi di quanti si fanno a visitarla» (cito una metafora di Francesco Cherubini, lessicografo ottocentesco). Nella conferenza tenuta (con le slide proiettate), si nota che ci sono dei nuclei tematici, anzitutto, che mi hanno incoraggiato in un approccio di tipo semiotico e interdisciplinare, che vede la lingua come una delle strategie, delle opzioni. Penso al caso delle false carte di Arborèa, che a me è sembrato naturale abbinare alla filologia e critica dantesca perché sono un caso di falsificazione al servizio dell’invenzione di una tradizione. Andando oltre la lingua sono arrivato all’etnografia (il gioco della morra, le launeddas); all’archeologia (bronzetti nuragici), alla coppia iconografia/iconologia (retablo come sacra rappresentazione). Durante questo percorso di scoperta, di connessioni e accostamenti, sono stato guidato, e quasi spinto a restituire una ‘tinta’ sarda, cioè un’atmosfera oggettiva – fatta di orgoglio, o di tenacia nel mantenere intatto un certo tipo di essere al mondo e di genuinità –, ma anche soggettiva: quello che per me vuol dire ‘sardità’, e di cui Dante mi ha fornito un pretesto efficace e potente. Il testo della lectura è andato così  – per quello che mi è riuscito - oltre quello dantesco, fino a disegnare un corpus, una tradizione dell’identità e della cultura sarda.”

È questa, dunque, la sua personale novità o “acquisizione” relativamente a questa ricerca?

“Sulla Commedia si può discutere da infiniti angoli, fino a disegnare un prisma dalle mille sfaccettature. Qui ne propongo una realizzata con materiale ‘autoctono’, quello che la storia stratificata di quest’isola mi offre. Quando ammiro la bellezza di una chiesa romanica sarda che svetta dal paesaggio senza soluzione di continuità col terreno e la pietra circostanti, penso che è lo stesso senso di bellezza che può trasmettere la lettura del divino poema.”

Come definirebbe da non-sardo questo messaggio?

“Preferisco rifarmi a un fatto simbolico. In Sardegna l’unico codice manoscritto della Commedia è nella Biblioteca Universitaria di Cagliari; contiene le cosiddette ‘Chiose cagliaritane’, che però nell’esegesi storica del poema non fanno testo, non aggiungono nulla di nuovo a quello che si sa o si è già detto. Ecco, come la mia conferenza: non si vuole rivelare nulla di più della bellezza originaria di un capolavoro letterario o di una terra e della sua storia. Bastano da sé.” (ao)

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