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Un inedito di Buber per la PFTS University Press

CAGLIARI, 27 ottobre 2015 - Nel gennaio del 1959 un Martin Buber più che ottantenne venne invitato a Monaco, a un convegno dal titolo “Il linguaggio” al quale avrebbero partecipato fra gli altri Romano Guardini e Martin Heidegger che, proprio in quell’occasione, avrebbe letto il suo celebre testo “In cammino verso il linguaggio”. Per motivi personali Buber non poté essere presente in quell’occasione, ma il testo di quell’intervento venne reso pubblico un anno dopo, con il titolo “Das Wort, das gesprochen wird”.

Questo scritto esce ora, per la prima volta in edizione e traduzione italiana, a cura di Daniele Vinci, docente di antropologia filosofica alla Facoltà Teologica della Sardegna, con il titolo La parola che viene detta (PFTS University Press, Cagliari 2015). L’edizione, rifinita in molti dettagli (testo a fronte, un ricco apparato di note, una postfazione di Daniele Vinci, sintetica ma molto esaustiva, di tutto il percorso filosofico-religioso di Buber, e infine una bibliografia essenziale che dà una traccia importante per un primo approccio al pensatore austriaco), mostra un Buber determinato più che mai a riaffermare il principio dialogico come principio di relazione quale cuore del destino dell’essere.

Letto col senno del poi, La parola che viene detta è un testo certamente breve ma che condensa con puntualità il pensiero buberiano nella sua parte filosofica (secondo una tripartizione che, come osserva Vinci nella postfazione, lo stesso Buber tenne a precisare in merito alla sua opera, che si può tranquillamente suddividere in scritti filosofici, scritti biblici e scritti chassidici). Una parte filosofica che in questi anni ’50 e ’60 ha un motivo importante in più per riaffermarsi, vale a dire il confronto con Heidegger, il quale, al tempo in cui Buber pubblicò la sua opera filosofica più importante, Io e Tu (1923), ancora non aveva dato alla luce Essere e tempo (1927) e tantomeno i testi della “svolta”. Il confronto con Heidegger, largamente implicito ma ugualmente chiaro nella sua definizione polemica, è un filo conduttore importante di questo testo di Buber, ma non l’unico. Vi è forse, anzitutto, da parte del pensatore austriaco, la necessità di render chiara, a distanza di anni, la propria visione filosofica a partire da alcune definizioni sintetiche, ma anche, come osserva bene Vinci, di segnare una più netta presa di distanza dalla concezione heideggeriana di verità come aletheia, cioè come “non-nascondimento”, verso una più decisa adesione all’etimologia ebraica del concetto di verità come “fedeltà”, “saldezza”, “fede”, che bene connette la base filosofica buberiana alle successive di matrice biblica e chassidica, e giustifica il suo pensiero non tanto come una “filosofia della religione” quanto come una vera e propria “filosofia religiosa”.

Professor Vinci, partiamo dal titolo di questo testo di Buber: la parola che “viene detta” non è la parola che “è detta”?
“Il concetto è molto diverso, in effetti. In tedesco si sarebbe potuto dire ‘la parola che è detta’ e avrebbe indicato un'altra idea, più statica, più definita. Il venir detto, nella lingua tedesca, è in realtà un ‘divenire’ (werden): indica un accadimento, la ‘situazionalità’ che in Buber è centrale. Il luogo, il momento, l’ora in cui qualcosa accade. La medesima parola non significa la stessa cosa in situazioni differenti.”

Dunque la “parola che viene detta” indica una situazione interpersonale, un luogo che sta “nel mezzo” tra due persone in dialogo, ma indica anche un evento unico, che non si ripeterà?
“È esattamente così. In queste due prospettive c’è in qualche modo il nucleo fondamentale del pensiero dialogico buberiano. E dico di più: la stessa cosa (il divenire, la relazione, l’unicità) mostra la sua verità in un aspetto particolare che è l’insegnamento. Io faccio sempre osservare come Buber sia efficace nel momento nel quale lo insegni e attivi ciò che sta accadendo in quell’istante. Lo si capisce più nella relazione che si stabilisce con gli studenti che in una semplice lettura dei suoi testi.”

Ma chi è, in fin dei conti, Buber? È un filosofo, un mistico, un teologo?
“Io non credo che lui si sia mai pensato come ‘filosofo’, almeno alla maniera di quelli che incarnavano quel ruolo ufficialmente. Né si può dire che vi sia in lui un’idea di religione in un senso dogmatico. È significativo un passo, tratto da un testo di Buber intitolato ‘Un resoconto filosofico’, in cui egli dice esplicitamente di ‘non avere un insegnamento’ ma piuttosto di ‘mostrare qualcosa: qualcosa della realtà che non è stato visto o lo è stato troppo poco’.”

Di cosa si tratta?
“È il concetto di presenza. A mio modo di vedere è il tema centrale in Buber: la presenza di Dio, talmente forte che non viene quasi mai avvertita. È l’uomo che non è presente a Dio, non viceversa.”

Dunque stiamo parlando di una visione religiosa trasversale, forse anche di una filosofia trasversale, non fissa, proprio come lo è ogni dialogo?
“Sì. Questo è Buber.” (ao)

 

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