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Il pensiero occidentale tra meraviglia e fallimento

 

CAGLIARI, 30 ottobre 2015 - È uscita di recente per l’editore Castelvecchi una monografia di Andrea Oppo, docente di ermeneutica filosofica alla Facoltà Teologica della Sardegna, dal titolo La meraviglia e il fallimento. Un’introduzione ragionata alla filosofia. Il testo, rivolto in particolare agli studenti, è pensato come una vera e propria “prima lezione di filosofia”, che affronta le domande forse più spontanee a proposito di questa disciplina:

dalla definizione della materia, ai suoi campi di indagine, alle differenze tra i vari ambiti del sapere filosofico, al suo rapporto con la scienza e infine a un breve confronto tra le correnti filosofiche attuali.

Non è un testo storico, ma piuttosto uno sguardo esterno sul senso e sull’attualità della disciplina e, come è scritto nella quarta di copertina, su “che cosa contraddistingua il ragionare filosofico rispetto ad altri modi di comprendere il mondo”. In risposta ad alcune domande, l’autore introduce così il suo studio:

Un titolo curioso, “La meraviglia e il fallimento”: cosa significano questi due termini? Sono due concetti opposti, o magari in lotta fra loro?
“No, al contrario. Sono due esperienze umane in profondo accordo. Se vogliamo, si tratta di un momento di inizio e di un altro di fine di un’analisi su qualcosa. Ma entrambi si riferiscono a uno stesso modo di leggere il mondo. Un modo che è stato chiamato ‘filosofico’, filosofia.”

Si spieghi meglio.
“Le cose, almeno in un certo senso, si vedono meglio all’inizio, la prima volta, quando le cogliamo con la meraviglia dell’intero, nel loro completo ‘essere ’, che solo ‘la prima volta’ ci mostra con una tale ampiezza priva di pregiudizi. Questa è meraviglia: domandarsi ‘che cos’è un numero’; e non tanto saper svolgere un’operazione algebrica. Non credo di aver mai visto il duomo di Firenze così bene e per intero come lo vidi la prima volta che ci andai. Eppure negli anni successivi l’ho visitato tantissime volte, quasi ogni giorno negli anni in cui abitavo in quella città. Ma il ‘modo’ in cui lo vidi quella prima volta, la sensazione di interezza che mi diede: quella era unica. Allo stesso modo, nulla si vede così bene come qualcosa che è fallito, e intendo fallito completamente. Pensi alla fine di un regime, al crollo di un sistema, ma anche alla fine di un’amicizia o di un rapporto: è in quel momento che si capisce la verità di quella storia, con una chiarezza tutta speciale.”

Dunque, meraviglia e fallimento sono due momenti di verità?
“Direi piuttosto che sono due momenti di entrata nella filosofia, nel pensare filosofico; due momenti in cui porsi un certo tipo di domande ha senso, anzi ha pienamente senso. In altri, invece, porsi le stesse domande può apparire assolutamente inutile o ridondante.”

Ci può chiarire meglio questo punto?
“Le domande classiche della filosofia (soprattutto da Socrate in poi) appaiono al senso comune come stupidamente ovvie o inutilmente speculative. A che serve chiedersi ‘che cos’è una mente?’ quando tutto quello che ci interessa è la domanda ‘come funziona un cervello?’. O chiedersi ‘che cos’è la conoscenza?’ quando ci sembra di saperlo benissimo? Il problema semmai è quello di ‘conoscere’ nel senso di ‘acquisire’ le cose, possederle per poterle usare, non chiedersi ‘cosa significhi conoscerle’ (che è, invece, precisamente, la domanda su cui Kant fonda tutto il suo sistema). Ugualmente, che domanda inutile è quella sull’‘imparare a pensare’ o sul ‘che cosa sia la verità’ o la ‘libertà’ o, per esempio, l’‘amicizia’? Tutti crediamo di saper pensare, almeno per l’uso che ci serve, e tutti abbiamo un’idea perlomeno intuitiva di che cosa sia vero e cosa falso; di quando siamo liberi e quando no; di chi ci sia amico e chi no. Le domande della filosofia, prese al livello del senso comune, sono banali, sono inutili per definizione, quasi un gioco per chi ha tempo e non ha altro da fare.”

Suppongo ci sia un ‘ma’.
“Ma in certi casi, in certe specifiche situazioni, ripeto, la prima volta che si fa propria una concezione o all’indomani del collasso di quella stessa concezione, in cui credevamo, quelle stesse domande si rivelano sotto tutt’altra luce. E forse ci fanno pure pensare che erano da sempre ‘fondamentali’, che ne avevamo bisogno sempre, anche quando ‘non ce n’era bisogno’. È in quei momenti che le convenzioni, di cui abitualmente ci si fida e si vive, non bastano più. Se qualcuno ci ha ingannati completamente, ci si domanderà che ‘cos’è, dunque, la verità?’; e questa domanda, in questo preciso contesto, non suonerà più così ovvia o inutile. Se ho sbagliato tutto nel conoscere qualcosa, mi chiederò ‘che cosa sia la conoscenza’, e non sarà più una domanda sciocca come quando tutto filava liscio. Il fallimento della fine, così, si ricongiunge al senso di meraviglia dell’inizio, perché queste stesse domande erano presenti, nella medesima forma, la prima volta che mi ero interrogato su quei concetti e ancora non avevo acquisito la sicurezza delle convenzioni.”

È questa la “filosofia”?
“Non proprio. Questa è meta-filosofia, come si dice oggi. E infatti questo è un testo che riflette su che cosa sia questo modo di pensare così anomalo per il senso comune, ma che è antico almeno quanto lo è la Grecia classica, e che ha fondato per tanti versi la ‘testa’ dell’uomo occidentale. La filosofia vera comincia dopo questo esercizio di meta-filosofia, ed è una disciplina o un insieme di discipline che indagano, per l’appunto, su che cosa sia la conoscenza, la verità, il bene, la giustizia e tutti quei concetti che ci si rivelano in una maniera del tutto speciale soprattutto la prima e l’ultima volta. Porsi queste domande non serve al dominio immediato del mondo: ne ha bisogno, invece, la mente, per trovare un posto migliore per abitarlo.” (dv)

 

Andrea Oppo, La meraviglia e il fallimento. Un’introduzione ragionata alla filosofia, collana Studi, Castelvecchi, Roma 2015, 140 pp.